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Presentazione del sito di Massimiliano Altobelli     Investigatore Privato a Roma

Massimiliano  Altobelli  svolge personalmente la professione di Investigatore Privato a Roma con autorizzazione della Prefettura, sia in ambito civile che penale, dal 1995.

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  Mi chiamo Massimiliano Altobelli, svolgo, con passione, la professione di Investigatore Privato dal 1995 e sono regolarmente autorizzato dalla Prefettura di Roma in base agli artt.134 e seg. del T.U.L.P.S..

 

  Nei vari siti internet presenti in rete o nelle innumerevoli pubblicità presenti nei siti di annunci, troverete centinaia di pubblicità di Agenzie Investigative dove si dichiara di essere autorizzati, di avere esperienza pluriennale, di essere leader del settore, ecc.

 

  Vi invito a leggere il mio Curriculum Professionale, presente in questo sito, dove si evince chiaramente la mia esperienza ventennale specifica e dove sono chiaramente specificate le varie autorizzazioni conseguite negli anni di lavoro.

 

  E’ Vostro diritto chiedere all’Investigatore Privato a cui vi rivolgete di poter visionare la Licenza rilasciata dalla Prefettura e le Tabelle con le operazioni e relative tariffe, che devono essere esposte presso l’ufficio dell’Agenzia.

 

  Questo consiglio Vi sarà utilissimo nel capire che molte persone vantano esperienze pluriennali, avendo la Licenza solo da pochissimo tempo oppure essendo sprovvisti della stessa, quindi addirittura abusivi.

                                                            Massimiliano Altobelli

 

..spesso avere la certezza e le prove di un proprio sospetto, fà la differenza fra "subire" e "risolvere"..

 

Roma, Via della Farnesina n.15 (Ponte Milvio)

Tel.:   336.340.007  --  335.64.999.19

P.I.: 10102770582 


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La privacy nelle investigazioni private e il Codice di Deontologia

Di seguito alcune normative in merito al diritto di poter commissionare investigazioni private nel rispetto delle normative vigenti in ambito di "privacy".

Il Codice di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali effettuati per svolgere investigazioni difensive o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria nacque dalla necessità di definire delle procedure di comportamento che potessero contribuire a interpretare, nel rispetto della normativa vigente, le attività che riguardano alcuni aspetti della complessa attività forense e investigativa.

 

Alcuni passaggi normativi risultarono essere fondamentali al fine della nascita e dell'adozione del predetto Codice.

 

 

 

L'art. 27 della direttiva n. 95/46/Ce del Parlamento europeo e del Consiglio del 24 ottobre 1995, secondo cui gli Stati membri e la Commissione avevano incoraggiato l'elaborazione di codici di condotta destinati a contribuire, in funzione delle specificità settoriali, alla corretta applicazione delle disposizioni nazionali di attuazione della direttiva adottate dagli Stati membri.

 

Per di più, gli articoli 12 e 154, comma 1, lettera e) del Codice in materia di protezione dei dati personali (D. Lgs. 30 giugno 2003, n. 196), i quali attribuiscono al Garante il compito di promuovere nell'ambito delle categorie interessate, nell'osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto dei criteri direttivi delle raccomandazioni del Consiglio d'Europa sul trattamento dei dati personali, la sottoscrizione di codici di deontologia e di buona condotta per determinati settori, verificarne la conformità alle leggi e ai regolamenti anche attraverso l'esame di osservazioni di soggetti interessati e contribuire a garantirne la diffusione e il rispetto.

 

Inoltre, l'art. 135 del Codice con il quale venne demandato al Garante il compito di promuovere la sottoscrizione di un codice di deontologia e di buona condotta per il trattamento dei dati personali effettuati per svolgere le investigazioni difensive di cui alla legge 7 dicembre 2000, n. 397 o per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria, in particolare da liberi professionisti o da soggetti che esercitano un'attività di investigazione privata autorizzata in conformità alla legge.

 

La deliberazione n. 3 del 16 febbraio 2006, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 1 marzo 2006, con la quale il Garante promuoveva la sottoscrizione del predetto codice di deontologia e di buona condotta.

 

Infine, la successiva deliberazione n. 31-bis del 20 luglio 2006 con la quale il Garante aveva adottato in base all'art. 156, comma 3, lettera a) del Codice il regolamento n. 2/2006 concernente la procedura per la sottoscrizione dei codici di deontologia e di buona condotta da parte di soggetti pubblici e privati i quali manifestavano la volontà di partecipare all'adozione di tale codice.

In relazione all'attività svolta dagli investigatori privati, il Capo IV disciplina specificamente il comportamento che tali professionisti devono osservare.

Difatti, l'art. 8 precisa che l'investigatore privato:

- organizza il trattamento anche non automatizzato dei dati personali secondo le modalità di cui all'articolo 2, comma 1 (l'organizzazione del trattamento anche non automatizzato dei dati personali secondo le modalità che risultino più adeguate, caso per caso, a favorire in concreto l'effettivo rispetto dei diritti, delle libertà e della dignità degli interessati, applicando i principi di finalità, necessità, proporzionalità e non eccedenza sulla base di un'attenta valutazione sostanziale e non formalistica delle garanzie previste, nonché di un'analisi della quantità e qualità delle informazioni che utilizza e dei possibili rischi);

- non può intraprendere di propria iniziativa investigazioni, ricerche o altre forme di raccolta dei dati. Tali attività possono essere eseguite esclusivamente sulla base di apposito incarico conferito per iscritto e solo per le finalità di cui al codice;

- l'atto d'incarico deve menzionare in maniera specifica il diritto che si intende esercitare in sede giudiziaria, ovvero il procedimento penale al quale l'investigazione è collegata, nonché i principali elementi di fatto che giustificano l'investigazione e il termine ragionevole entro cui questa deve essere conclusa;

- deve eseguire personalmente l'incarico ricevuto e può avvalersi solo di altri investigatori privati indicati nominativamente all'atto del conferimento dell'incarico, oppure successivamente in calce a esso qualora tale possibilità sia stata prevista nell'atto di incarico. Restano ferme le prescrizioni relative al trattamento dei dati sensibili contenute in atti autorizzativi del Garante;

- nel caso in cui si avvalga di collaboratori interni designati quali responsabili o incaricati del trattamento in conformità a quanto previsto dagli artt. 29 e 30 del Codice, l'investigatore privato formula concrete indicazioni in ordine alle modalità da osservare e vigila, con cadenza almeno settimanale, sulla puntuale osservanza delle norme di legge e delle istruzioni impartite.

 

Tali soggetti possono avere accesso ai soli dati strettamente pertinenti alla collaborazione a essi richiesta;

- il difensore o il soggetto che ha conferito l'incarico devono essere informati periodicamente dell'andamento dell'investigazione, anche al fine di permettere loro una valutazione tempestiva circa le determinazioni da adottare riguardo all'esercizio del diritto in sede giudiziaria o al diritto alla prova.

Il seguente art. 9 individua altre regole di comportamento quali l'astenersi dal porre in essere prassi elusive di obblighi e di limiti di legge e, in particolare, conforma ai principi di liceità e correttezza del trattamento sanciti dal Codice:

a) l'acquisizione di dati personali presso altri titolari del trattamento, anche mediante mera consultazione, verificando che si abbia titolo per ottenerli;

b) il ricorso ad attività lecite di rilevamento, specie a distanza, e di audio/videoripresa;

c) la raccolta di dati biometrici.

Tra l'altro, l'investigatore privato rispetta nel trattamento dei dati le disposizioni di cui all'articolo 2, commi 4, 5 e 6 del codice.

Circa tale aspetto, si deve sottolineare quanto segue.

Il richiamato art. 2 pone specifica attenzione è prestata all'adozione di idonee cautele per prevenire l'ingiustificata raccolta, utilizzazione o conoscenza di dati in caso di:

a) acquisizione anche informale di notizie, dati e documenti connotati da un alto grado di confidenzialità o che possono comportare, comunque, rischi specifici per gli interessati;

b) scambio di corrispondenza, specie per via telematica;

c) esercizio contiguo di attività autonome all'interno di uno studio;

d) utilizzo di dati di cui è dubbio l'impiego lecito, anche per effetto del ricorso a tecniche invasive;

e) utilizzo e distruzione di dati riportati su particolari dispositivi o supporti, specie elettronici (ivi comprese registrazioni audio/video), o documenti (tabulati di flussi telefonici e informatici, consulenze tecniche e perizie, relazioni redatte da investigatori privati);

f) custodia di materiale documentato, ma non utilizzato in un procedimento e ricerche su banche dati a uso interno, specie se consultabili anche telematicamente da uffici dello stesso titolare del trattamento situati altrove;

g) acquisizione di dati e documenti da terzi, verificando che si abbia titolo per ottenerli;

h) conservazione di atti relativi ad affari definiti.

Nel caso in cui i dati fossero trattati per esercitare il diritto di difesa in sede giurisdizionale, ciò può avvenire anche prima della pendenza di un procedimento, semprechè i dati medesimi risultino strettamente funzionali all'esercizio del diritto di difesa, in conformità ai principi di proporzionalità, di pertinenza, di completezza e di non eccedenza rispetto alle finalità difensive (art. 11 del Codice).

Sono utilizzati lecitamente e secondo correttezza:

a) i dati personali contenuti in pubblici registri, elenchi, albi, atti o documenti conoscibili da chiunque, nonché in banche di dati, archivi ed elenchi, ivi compresi gli atti dello stato civile, dai quali possono essere estratte lecitamente informazioni personali riportate in certificazioni e attestazioni utilizzabili a fini difensivi;

b) atti, annotazioni, dichiarazioni e informazioni acquisite nell'ambito di indagini difensive, in particolare ai sensi degli articoli 391-bis, 391-ter e 391-quater del codice di procedura penale, evitando l'ingiustificato rilascio di copie eventualmente richieste. Se per effetto di un conferimento accidentale, anche in sede di acquisizione di dichiarazioni e informazioni ai sensi dei medesimi articoli 391-bis, 391-ter e 391-quater, sono raccolti dati eccedenti e non pertinenti rispetto alle finalità difensive, tali dati, qualora non possano essere estrapolati o distrutti, formano un unico contesto, unitariamente agli altri dati raccolti.

Circa la conservazione e la cancellazione dei dati, l'art. 10 chiarisce che:

- nel rispetto dell'art. 11, comma 1, lett. e) del Codice della Privacy i dati personali trattati dall'investigatore privato possono essere conservati per un periodo non superiore a quello strettamente necessario per eseguire l'incarico ricevuto. A tal fine deve essere verificata costantemente, anche mediante controlli periodici, la stretta pertinenza, non eccedenza e indispensabilità dei dati rispetto alle finalità perseguite e all'incarico conferito;

- una volta conclusa la specifica attività investigativa, il trattamento deve cessare in ogni sua forma, fatta eccezione per l'immediata comunicazione al difensore o al soggetto che ha conferito l'incarico, i quali possono consentire, anche in sede di mandato, l'eventuale conservazione temporanea di materiale strettamente personale dei soggetti che hanno curato l'attività svolta, a i soli fini dell'eventuale dimostrazione della liceità e correttezza del proprio operato. Se è stato contestato il trattamento il difensore o il soggetto che ha conferito l'incarico possono anche fornire all'investigatore il materiale necessario per dimostrare la liceità e correttezza del proprio operato, per il tempo a ciò strettamente necessario;

- la sola pendenza del procedimento al quale l'investigazione è collegata, ovvero il passaggio ad altre fasi di giudizio in attesa della formazione del giudicato, non costituiscono, di per se stessi, una giustificazione valida per la conservazione dei dati da parte dell'investigatore privato.

Per concludere, l'art. 11 relativo all'informativa stabilisce che l'investigatore privato può fornire l'informativa in un unico contesto ai sensi dell'articolo 3 del codice, ponendo in particolare evidenza l‘identità e la qualità professionale dell'investigatore, nonché la natura facoltativa del conferimento dei dati.

 

Massimiliano Altobelli - Investigatore Privato Roma

 

 

 

Fonte: studiocataldi.it

 

 

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ADDIO AI FURBETTI DELLA “104″. POSSIBILE IL LICENZIAMENTO PER GIUSTA CAUSA SE L’USO È UN ABUSO ILLECITO

Questo potrebbe rendere sempre più importante effettuare delle investigazioni private con lo scopo di accertare eventuali abusi per poter far valere un diritto del datore di lavoro in sede giudiziaria.

Massimiliano Altobelli - Investigatore Privato a Roma 

L’ABUSO DEL PERMESSO “104″, PER ASSISTENZA DEI CONGIUNTI, GIUSTIFICA IL LICENZIAMENTO

La natura illecita dell’abuso del diritto a fruire dei permessi per l’assistenza dei congiunti, di cui all’art. 33, L. 104/1992, e il ragionevole sospetto che il lavoratore ne abbia abusato, legittimano il ricorso al controllo occulto c.d. “difensivo” ad opera del datore di lavoro. L’uso improprio del permesso per l’assistenza dei congiunti giustifica il licenziamento per giusta causa in quanto compromette irrimediabilmente il vincolo fiduciario indispensabile per la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Un datore di lavoro si avvale di un’agenzia investigativa per “pedinare” un proprio dipendente, sospettato di utilizzare i permessi ottenuti per l’assistenza ai congiunti ai sensi dell’art 33 della L. 104/1992 al fine di recarsi in vacanza. Scoperto l’illegittimo uso del permesso, il datore licenzia il dipendente per giusta causa.

 

Il dipendente impugna il licenziamento contestando, in giudizio, la liceità del controllo operato dal datore e la conseguente utilizzabilità delle risultanze probatorie derivanti dall’attività investigativa. In particolare, secondo il lavoratore gli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori legittimerebbero, in presenza di un ragionevole sospetto, solo i controlli c.d. “difensivi” ovvero finalizzati ad accertare gli illeciti perpetrati a danno del patrimonio aziendale. In nessun caso, invece, il controllo potrebbe avere ad oggetto l’attività lavorativa intesa quale adempimento dell’obbligazione di fornire la propria prestazione lavorativa cui, a dire del lavoratore, sarebbero riconducibili i controlli effettuati dal datore di lavoro nel caso in esame.

 

Il Tribunale in primo grado accoglie il ricorso del lavoratore mentre la Corte D’Appello riforma la sentenza, argomentando che l’abuso del diritto di cui all’art. 33 L. 104/92 costituisce condotta illecita, tanto nei confronti dell’Inps, che eroga la corrispondente indennità, quanto nei confronti del datore di lavoro, il quale dall’abuso subisce comunque un danno, sia in termini economici dovendo, comunque, accantonare anche per i giorni di assenza il TFR, che organizzativi, dovendo far fronte all’assenza del lavoratore. La Corte d’Appello ritiene, inoltre, che nel caso di specie sussista anche il secondo requisito per accedere ai controlli difensivi ovvero il ragionevole sospetto del comportamento illecito (difatti due colleghi avevano in sede testimoniale dichiarato di aver sentito il lavoratore mentre raccontava di essere stato in vacanza in giorni in cui lo sapevano in permesso). Ad avviso del giudice di secondo grado, dalla liceità dell’accertamento difensivo consegue l’utilizzabilità in giudizio degli esiti dello stesso e, in definitiva, la legittimità del licenziamento per giusta causa.

 

La decisione è confermata dalla Corte di Cassazione (sentenza del 8 gennaio 2014, depositata in data 4 marzo 2014, n. 4984), la quale ribadisce la legittimità del controllo esercitato dal datore di lavoro attraverso l’impiego dell’agenzia investigativa e l’utilizzabilità delle relative prove. Il giudice di legittimità, ritenendo la natura illecita dell’abuso del diritto a beneficiare dei permessi per l’assistenza dei congiunti, esclude che il controllo esercitato dal datore di lavoro possa, nel caso di specie, considerarsi teso ad accertare l’adempimento della prestazione lavorativa, in quanto effettuato al di fuori dell’orario di lavoro e in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere la prestazione lavorativa.

 

L’utilizzo da parte del dipendente di permessi con finalità assistenziale per scopi diversi, secondo la Suprema Corte costituisce poi comportamento idoneo a ledere irrimediabilmente il rapporto fiduciario, con conseguente legittimità del licenziamento per giusta causa, condividendo sul punto la decisione del Giudice d’Appello, adeguatamente motivata anche in relazione ai generali principi della “coscienza generale”. Su quest’ultimo punto, la Corte ha cura di ricordare come l’art. 2119 sia una norma c.d. elastica, tale per cui la giusta causa rappresenta un “modello generico”, capace di adeguarsi a una realtà mutevole nel tempo e che necessita quindi di essere specificato in sede interpretativa.

 

FONTE: diritto24.ilsole24ore.com

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Cassazione: le prove raccolte da un investigatore privato sono valide in causa di separazione

 

..Ottima sentenza che va a confermare l'importanza del dimostrare, con l'ausilio delle prove fornite da un Investigatore Privato, l'infedeltà del coniuge come motivo della separazione, al fine della richesta di addebito della responsabilità.

A pensare che ci sono ancora persone, anche Legali, convinti che le fotografie fornite da un Inevestigatore Privato non si possono presentare per "motivi di privacy"..

A mio avviso tanti progressi sono stati fatti negli ultimi anni, ad iniziare dal Decreto Ministeriale 269/2010, che ha fatto molta chiarezza in molti aspetti dello svolgimento della professione come, ad esempio, l'uso lecito della Localizzazione Satellitare, ecc. ecc.

Molta strada si deve ancora fare per dare a questa professione l'importanza e il rispetto che merita.

Massimiliano Altobelli - Investigatore Privato a Roma

 

Cassazione: le prove raccolte da un investigatore privato sono valide in causa di separazione

 

La Corte dà ragione a un marito che aveva chiesto il divorzio dalla moglie dopo aver scoperto il suo tradimento. Per scoprirla ha assoldato un detective.

 

Confermate le sentenze del tribunale di Modena e della corte d'Appello di Bologna.

 

BOLOGNA - Via libera alle investigazioni di un detective privato portate come prova in tribunale in una causa di separazione. E' la Cassazione a stabilirlo dando ragione ad un uomo che aveva assoldato un investigatore per accertare l'infedeltà della moglie. Era stata la signora, che voleva separarsi dal marito, a promuovere la causa chiedendo il mantenimento. Ma i giudici hanno ritenuto che dalle fotografie e dai tabulati telefonici emersi dalle indagini dell'investigatore e portati in tribunale, fosse la nuova relazione della moglie la ragione della definitiva rottura del rapporto tra i due coniugi. Le hanno quindi addebito la separazione, escludendo il suo diritto al mantenimento, nonostante questa avesse sostenuto che il matrimonio fosse in crisi prima della sua infedeltà, tanto che dormivano in camere separate.

 

La Cassazione - con la sentenza 11516 della prima sezione civile, che ha confermato quanto stabilito nel merito dal tribunale di Modena e dalla corte d'Appello di Bologna - ha ribadito quanto stabilito dalla stessa Corte nell'ambito dei rapporti di lavoro "ove è consentito al datore di lavoro incaricare un'agenzia investigativa al fine di verificare le condotte illecite da parte dei dipendenti". "Nel contesto della materia familiare - scrivono gli ermellini - parimenti il ricorso all'ausilio di un investigatore privato è ammesso".

 

Nel caso dei due coniugi la corte d'Appello ha ritenuto che la violazione del dovere di fedeltà fosse precedente alla domanda di separazione sulla base delle date delle fotografie e dei tabulati telefonici portati in tribunale. Su questo punto aveva fatto ricorso in Cassazione il difensore della donna, opponendo che "la relazione investigativa era stata redatta da un terzo su incarico del marito, dunque senza le garanzie del contradditorio" e che l'investigatore "aveva narrato una serie di fatti giungendo a conclusioni del tutto personali".

 

Secondo la Cassazione si tratta "di dati del tutto oggettivi, non di mere deduzioni dell'investigatore privato incaricato". A fronte dell'adulterio, dunque, il

marito "ha assolto all'onere della prova su di lui gravante", mentre - conclude la Suprema Corte - "l'anteriorità della crisi matrimoniale" rispetto all'infedeltà, sostenuta dalla moglie, "non è stata positivamente accertata dalla corte di merito".

 

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INVESTIGAZIONE PRIVATA - Sì a indagini difensive commissionate all'investigatore privato direttamente dalla persona offesa anziché dal suo difensore.

Ritengo che sia una Sentenza molto importante per l'attività investigativa. In ogni caso il punto è che il Committente può affidare un incarico investigativo ad un investigatore privato autorizzato dalla Prefettura per far valere e/o difendere un suo diritto in sede giudiziaria e quindi anche in questo caso.

Mi chiedo: difronte alle prove palesi di un fatto raccolte da un investigatore privato è il caso di contestare se sia stato incaricato dal difensore o dal cliente stesso? MAssimiliano Altobelli - Investigatore Privato a Roma


È utilizzabile in sede penale la relazione redatta dall'Investigatore privato autorizzato, che abbia svolto le indagini a richiesta della parte lesa, anziché su incarico del difensore che la assiste?
Per la Corte d'Appello tridentina, nulla osta a che il c.d. "report" del detective privato che sia stato incaricato soltanto dal diretto interessato ("il singolo che ne abbia interesse") ad accertare un determinato "tema di indagine" venga speso nell'ambito del processo penale, poiché, da un lato, la sua natura è quella di fonte probatoria sottoposta alla libera valutazione del giudicante e, dall'altro lato, non è ravvisabile nel nostro Ordinamento un sistema di prova legale nominato. 
L'affermazione della legittimazione ad attribuire il mandato a indagare all'investigatore privato in sede penale, da parte della stessa "parte assistita", non è affatto scontata.
Si ponga attenzione alla rilevanza degli interessi e dei diritti che possono essere attinti da una indagine commissionata da un privato che si ritenga persona lesa in un procedimento penale, al di fuori di ogni forma di controllo da parte della "difesa tecnica", in grado di saggiare la fattibilità delle investigazioni e la opportunità di comunicarne in tutto o in parte (anche ad evitare qualsivoglia ritorsione) le risultanze all'assistito.

Infatti, se alla volontà dell’assistito va riconosciuto un peso specifico determinante, al fine di esercitare il diritto di difendersi indagando e provando, va senza dubbio ammesso che la legge n° 397/00 è stata strutturata per escludere che l'assistito sia fornito della capacità legale d'indagare sfruttando in prima persona l’apparato predisposto dal codice di rito penale: in dottrina (ad es. Cristiani) si è rilevato come il legislatore ha individuato soltanto il difensore quale destinatario della disciplina delle indagini difensive, rimanendo indifferente verso le attività che la parte privata può intraprendere in sede extrapenale, purché nella sfera del lecito. Dunque, con buona pace della tesi fatta propria dalla Corte trentina, la legittimazione a indagare risiede nell’assunzione della qualità sostanziale di difensore, ovverosia nell'atto di nomina. 
Per contro, militano in senso contrario le opinioni di coloro secondo cui il privato cittadino coinvolto in un procedimento penale può svolgere per proprio conto indagini per reperire fonti di prova da utilizzare nel successivo dibattimento ma, in tal caso, se il privato cittadino di sua iniziativa si rivolga direttamente a un’Istituto d’investigazione privata, il rapporto che s'instaurerà non sarà quello previsto dall’art. 327-bis c.p.p., ma sarà disciplinato dall’art. 135 del T.U.L.P.S. (senza esonero ex art. 222 cit., quindi, dall'annotazione nel registro degli affari del compenso pattuito per l'espletamento dell'indagine, della data e
della specie dell’operazione effettuata, dell’esito delle operazioni e dell’indicazione dei documenti forniti dal committente ai fini della sua identificazione nonché delle generalità della parte, senza poter altresì utilmente opporre il segreto sugli atti d'indagini compiute agli ufficiali e agli agenti di pubblica sicurezza che intendano visionare il registro de quo).
Peraltro, qualora il mandato all'investigatore sia stato conferito dal difensore della P.O., egli è certamente tenuto a conformarsi alle prescrizioni che governano la peculiare procedura di cui al combinato disposto degli artt. 391-nonies e 327-bis c.p.p., siccome disposizioni che tutelano la "trasparenza" dell'attività defensionale. 
In ogni caso, l'esito dell'attività investigativa dovrà risultare dalla relazione finale prodotta agli atti del giudizio nonché venire riferito direttamente in aula dall'investigatore privato, che andrà escusso nel contraddittorio delle parti. 
Peraltro, per la cennata Corte territoriale di Trento l'investigatore andrebbe citato in qualità di testimone, nell'ambito di un giudizio ordinario, mentre è ben risaputo che costui - che assumerebbe tale veste se udito nelle cause civili - va sentito quale Consulente Tecnico di Parte (c.t.p.) nel processo penale.
Laddove l'imputato abbia optato per il rito abbreviato, se la relazione dell'Investigatore privato sia "entrata" legittimamente nel fascicolo processuale, nessuna conseguenza può trarsi dal fatto della mancata sua audizione, atteso che la citazione dell'autore di quella relazione rappresenta uno degli effetti della scelta del rito speciale premiale, senza che possa inferirsene una qualche limitazione delle risultanze probatorie raccolte su mandato direttamente della P.O. la quale - ex art. 327-bis c.p.p. - può alternativamente avvalersi delle investigazioni eseguite dal Difensore e dai suoi ausiliari, a partire dal momento dell’incarico professionale e al fine di “ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio assistito”. 
L'investigatore privato, però, non è sufficiente che sia munito di licenza amministrativa ex art. 134 T.U.L.P.S., occorrendo, ai sensi dell'art. 222 disp. att. c.p.p., che egli abbia “maturato una specifica esperienza professionale che garantisca il corretto esercizio dell’attività” e altresì che, in ossequio a quanto stabilisce il D.M. n° 269/01.12.10, disponga della specifica autorizzazione prefettizia a svolgere indagini nel procedimento penale, di cui alla c.d. "macro-area"  rubricata all'art. 5 (" Qualità dei servizi di investigazione privata e di informazione commerciale").
Infatti, siccome il suddetto D.M. n° 269/10, in vigore dal 16.03.2011, ha rimodulato la disciplina relativa agli istituiti di investigazione privata, è rimasta invariata la previsione - restrittiva, nel senso su indicato - che l’investigatore privato autorizzato a svolgere indagini difensive in sede penale è soltanto quello che opera "su istanza degli Avvocati", atteso che il Regolamento prevede al punto "a.V): attività d'indagine difensiva, volta all'individuazione di elementi probatori da far valere nell'ambito del processo penale, ai sensi dell'articolo 222 delle norme di coordinamento del codice di procedura penale e dall'articolo 327-bis del medesimo Codice", così impedendo ogni diversa suggestione ermeneutica, atta a dilatare il novero dei soggetti abilitati a conferire l'incarico per indagini finalizzate alla ricerca di elementi di prova da utilizzare nel contesto del processo penale. 
Ma tant'è, questa la soluzione adottata a Trento, nonostante l'evidente discrasia con le norme vigenti.

Corte d'Appello di Trento, Sent. 30.11.2012/03.01.2013

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI APPELLO DI TRENTO
SEZIONE PENALE

composta dai signori magistrati:
Dott. CARMINE PAGLIUCA, Presidente
D.ssa ANNA MARIA CREAZZO, Consigliere 
D.ssa ARIANNA BUSATO, Consigliere
ha pronunciato in Camera di Consiglio la seguente

Sentenza

nei confronti di S.I., nata a (omissis), imputata appellante,
avverso la Sentenza del Tribunale di Trento, Sez. Dist. di (omissis) in composizione monocratica n° 73/11 del 25.05.11 che dichiarava S.I. responsabile del reato a lei ascritto e, concesse circostanze attenuanti generiche e applicata la diminuente per il rito, la condannava alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali.
Condannava l'imputata al risarcimento del danno cagionato alla parte civile B.A. che liquidava ad oggi in via equitativa in complessivi € 3.800,00, oltre ad interessi legali dal fatto al saldo, nonché a rifondere le spese di costituzione, difesa e rappresentanza che liquidava in complessivi € 3.000,00, oltre ad accessori di legge. Pena sospesa e non menzione.
Udita la relazione della causa, fatta in Camera di Consiglio dal Presidente Dott. Carmine Pagliuca.
Sentito il Procuratore Generale, Dott. Giuseppe Maria Fontana, che ha concluso per la conferma della Sentenza impugnata.
Sentito il difensore della parte civile B.A., Avv. R.F.L. che ha concluso per la conferma della Sentenza impugnata e che deposita conclusioni scritte e nota spese.
Sentito il difensore di fiducia, Avv. T.L., che ha concluso per l'accoglimento dei motivi di Appello, chiedendo l'assoluzione dell'imputato.

Svolgimento del processo
S.I. è stata condannata dal Tribunale Monocratico di Trento all'esito di giudizio abbreviato e previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di due mesi e venti giorni di reclusione, oltre che al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, liquidato in € 3.800,00, per il reato di atti persecutori in danno di B.A., commesso in (omissis) fino al giugno 2010.
Secondo l'accusa ritenuta provata in Sentenza sulla base delle affermazioni della parte lesa e degli esiti di una indagine condotta da investigatore privato, la S.I., cognata di B.A., era entrata in conflitto con costui dopo la morte del fratello, suo marito, nel 2006. Da allora erano iniziati comportamenti vessatori del più vario tenore, dalle parole offensive ("bastardo", "carogna" e simili), fino al compimento di veri a propri atti provocatori, come quando gli aveva gettato dinanzi casa una busta con dei polli in decomposizione, generandogli una condizione di vita insopportabile, al punto che B.A. aveva dato mandato ad una agenzia investigativa privata. 
Era quindi emerso che era stata proprio la cognata a dare fuoco ad una apparecchiatura di videoregistrazione installata nel ricovero attrezzi; dalla ripresa registrata si vedeva lei stessa che vi cospargeva liquido. 
In altra occasione aveva versato acqua nel serbatoio dell'olio del trattore ed era stata vista entrare più volte, anche di notte, nel deposito del cognato.
Tutto ciò era stato ritenuto sufficiente ad integrare il reato contestato; di qui la condanna.
Ha interposto Appello il difensore, il quale in primo luogo contesta la utilizzabilità della relazione prodotta dall'investigatore privato, che avrebbe dovuto essere officiato dal difensore e non direttamente dalla parte; ciò che aveva determinato la esplicazione di una indagine irrituale e perciò affetta da invalidità patologica, eccepibile anche nel giudizio abbreviato. 
Tolta la relazione non restano prove a carico dell'imputata che, perciò deve essere mandata assolta con ampia formula.
Nel merito rileva che, comunque, difetterebbero gli estremi del reato contestato perché il B.A. non si era trovato affatto nella situazione di prostrazione psicologica che si vorrebbe far credere, ma era stato lui stesso a compiere attività vessatorie verso l'imputata, tanto che questa lo aveva anche denunciato, con il seguito di un decreto penale emesso e mai opposto. 
La querela sporta, perciò, va vista più come una ritorsione che non come genuina richiesta di condanna per interrompere uno stalking che si stesse subendo.
Anche quanto alla liquidazione in favore della parte civile c'è contestazione, non risultando provato alcun danno subito dal querelante.

Motivi della decisione

Ritiene la Corte che nessuna censura meriti l'utilizzazione della relazione redatta dall'investigatore privato a richiesta della parte lesa, trattandosi di fonte probatoria ben prodotta dal privato officiato dal diretto interessato e di libera valutazione, non sussistendo nel nostro ordinamento un sistema di prova legale tipicizzato. 
Vero è che se a conferire quell'incarico fosse stato il difensore questi avrebbe dovuto osservare la procedura prevista dagli artt. 391-nonies e 327-bis c.p.p., che sono norme a tutela della stessa trasparenza dell'attività del difensore, ma ciò nulla toglie alla possibilità del singolo che ne abbia interesse, di commettere all'investigatore privato autorizzato un tema di indagine, i cui risultati saranno poi non solo esposti nella relazione finale, quale quella esistente in atti, ma anche direttamente testimoniati dall'investigatore, se citato come teste nell'ambito di un giudizio ordinario.
In questo caso è mancata la citazione del teste autore della relazione, ma ciò non costituisce limite della risultanza probatoria, bensì solo l'effetto della scelta del rito praticata dall'imputato che ha preferito il giudizio abbreviato, così rinunciando di fatto a quella audizione.
Chiarito questo può ben dirsi che quanto accertato dall'investigatore privato, oltre che rendere prova diretta dei fatti corrispondenti, fornisce anche una puntuale conferma di attendibilità a quanto denunciato dal B.A., essendo emerse circostanze del tutto in linea con le sue affermazioni d'accusa: l'appiccamento del fuoco all'apparecchio di videoregistrazione ed il previo cospargimento di liquido, altro non significa se non che l'imputata aveva quella volta attuato una azione di sabotaggio sorretta da malanimo e da spirito ostile, sfogato nell'ombra e colpendo alle spalle, come solo una volontà malevola, rivolta a ledere appena possibile e, perciò, a perseguitare, poteva giustificare.
I fatti nel complesso, costituiti da parolacce, incombenza fastidiosa, azioni di disturbo, ecc., avevano trovano origine in epoca immediatamente successiva alla morte del fratello della parte lesa, nel 2006 e, secondo le affermazioni di quest'ultima (qui ritenute credibili), non avevano mai subito tregue o interruzioni, fino agli ultimi episodi accertati dall'investigatore. 
Ai fini che qui interessano, poiché la norma incriminatrice è stata introdotta solo da fine febbraio 2009, unicamente a quelli successivi a tale data si guarderà per stabilire la ricorrenza o meno del reato in contestazione, anche se quelli verificatisi in precedenza possono e debbono essere presi in considerazione per comprendere la natura del clima esistente e per lumeggiare sulla reale portata e sul significato degli avvenimenti successivi. 
I fatti rilevanti sono quelli esposti in denuncia, così riassumibili:
Continuo stillicidio di rumori prodotti dalla battitura di bastoni o oggetti simili sul pavimento;
constatazione, dopo l'autunno 2009, dell'avvenuta moria delle api, prodotta da avvelenamento con polvere bianca (evento documentato da foto in atti), trovata anche nell'orto;
sempre dopo l'estate 2009, era accaduto che balle di fieno custodite in un capannone adiacente alla casa, erano state trovate bagnate e marce all'interno e perciò inservibili, come mai accaduto prima e come impossibile senza che qualcuno vi avesse versato acqua;
nel marzo 2010 era stato notificato al B.A. un decreto penale di condanna per fatti di ingiurie, minacce e molestie, denunciati come da lui commessi in danno della cognata e dei di lei figli, con stupore dell'interessato che disconosceva quanto addebitatogli, al punto che, trovandosi a dover fronteggiare la situazione degenerata anche sul piano delle false accuse, laddove il folto numero dei parenti denuncianti a suo carico (la cognata ed i suoi 4 figli) poneva di fatto una contrapposizione perdente tra la sua sola parola e la loro, si indusse a rivolgersi all'investigatore perché accertasse chi fosse l'autore di disturbi, dispetti e vere e proprie attività pericolose in suo danno;
poco prima della presentazione della querela, infine, nel giugno 2010, si erano verificati altri due episodi di avvelenamento delle api.
A giudicare dagli esiti della investigazione privata, ritiene la Corte che debba prestarsi piena fede a quando dichiarato dal B.A. e smascherare come subdola tramatrice la congiunta, attuale imputata.
L'investigatore, infatti, dopo aver installato apparecchiature elettroniche adatte a tenere sotto sorveglianza i luoghi in cui si erano verificati gli insoliti accadimenti, dovette prendere atto che anche queste erano state danneggiate con modalità gravemente proditorie dalla parente, che, introdottasi nottetempo nei locali di deposito, aveva provocato un corto circuito al sistema di alimentazione e determinato la distrazione per incendio delle apparecchiature stesse. 
Questo evento, però, non era giunto fino al punto da non consentire, tuttavia, il recupero del disco rigido accluso al sistema elettronico-informatico di videoregistrazione, dalla cui lettura, fatta con acconce procedure, fu possibile addirittura visionare la donna che cospargeva liquido sulle apparecchiature prima che queste si incendiassero e riprendere anche costei mentre aggiungeva liquido (risultato essere acqua per oltre 5 litri) nel serbatoio dell'olio del trattore agricolo della parte lesa.
Siffatti esiti accertativi, fornivano chiara chiave di lettura degli avvenimenti controvertibili o anche solo, fino a quel momento, oggetto di sospetto nella attribuibilità e consentivano di far ritenere che tutto quanto subito, riportato, accertato dal denunciante, ad altri non fosse riconducibile se non alla cognata, che lo aveva in odio, come apertamente manifestato già dal 2006 e che non aveva smesso di attuare contro di lui comportamenti vessatori, che, a questo punto, vanno visti come un continuum dal quale ella mai si era lasciata distogliere e nei quali aveva perseverato fino ai fatti ultimi di diretta rilevanza ai fini della incriminazione di stalking.
Né, alla luce di quanto specificamente ed oggettivamente accertato, può dirsi ipotizzabile che i fatti non ricaduti in riprese video potessero essere stati opera di soggetti diversi, non riuscendosi nemmeno ad immaginare chi potesse aver avuto interesse a compiere, in una proprietà privata di non libero accesso, azioni tanto miserevoli, mirate a produrre danno al solo B.A., senza alcun vantaggio per chi se ne rendeva autore, se non quello del sottile piacere di sfogare il proprio odio, tenendo sotto scacco la persona presa di mira, sapendo di incuterle rabbia, dolore ed incertezza sul futuro: cose, queste, tutte in linea con le intenzionalità riconoscibili nelle riprese videoregistrate, che vedevano proprio l'imputata come protagonista.
Del reato in contestazione ricorre pienamente anche l'elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice, essendo fuori dubbio che per effetto delle angherie subite il B.A. avesse finito per vivere nella inquietudine e nell'ansia di trovarsi esposto, da un momento all'altro, a qualsiasi spiacevolezza, danno, o pericolo, variabili solo in funzione delle iniziative della cognata: nuove distruzioni delle api; messa fuori servizio del trattore; danneggiamento dei prodotti stoccati (come nel caso delle balle di fieno); inquinamento, se non peggio, degli ortaggi in giardino e connessa paura di rimanere lui stesso avvelenato; incombenza della antagonista quando erano presenti parenti o ospiti, di fatto tenuti lontano dalla casa del B.A. che, proprio per questo, aveva finito per trovarsi in condizione di quasi totale isolamento; minori e disturbi provocati ad arte, ecc. 
Lo stesso incarico affidato all'investigatore privato costituisce riflesso tangibile dello stato di disperazione cui era giunta la parte lesa, vistasi esposta ad ogni incognita, senza possibilità di attribuzioni sicure alla cognata, per il fatto che egli subiva gli effetti delle sue azioni, senza altre eclatanze riconoscibili, tranne che nei casi di ingiurie ed offese dirette.
È appena il caso di rilevare che, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte "Il delitto di atti persecutori, c.d. stalking (art. 612-bis c.p.), è un reato che prevede eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrarlo; pertanto, ai fini della sua configurazione non è essenziale il mutamento delle abitudini di vita della persona offesa, essendo sufficiente che la condotta incriminata abbia indotto nella vittima uno stato di ansia e di timore per la propria incolumità" (cfr. Cass. Pen., Sez. V, n° 29872/2011, rv. 250399).
Così, ancora, secondo Cass. Pen., Sez. V, n° 6417/2010, rv. 245881, "Integrano il delitto di atti persecutori, di cui all'art. 612-bis c.p., anche due sole condotte di minaccia o di molestia, come tali idonee a costituire la reiterazione richiesta dalla norma incriminatrice".
Deve essere, pertanto, senz'altro confermata l'affermazione di responsabilità della S.I.
Quanto al risarcimento del danno, la liquidazione fattane dal primo giudice è stata computata su base equitativa, trattandosi, come ampiamente motivato, di danno morale e la Corte non ritiene di doversi discostare da quella quantificazione, che appare complessivamente appropriata, consona alla natura dei fatti ed alle sofferenze subite dalla parte lesa.

P.Q.M.

Visto l'art. 599 c.p.p.
Conferma la sentenza impugnata e condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi € 1.800,00, oltre IVA e CPA.
Fissa il termine di giorni 30 per il deposito della Sentenza.
Così deciso in Trento, il 30.11.2012.
Depositata in Cancelleria il 03.01.2013.

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L'Infedeltà Coniugale e l'Investigatore Privato

L’infedeltà Coniugale e l’Investigatore Privato.

 

Mi occupo da oltre venti anni di investigazioni private e la maggior parte degli incarichi che mi sono stati affidati nel corso della mia carriera sono stati, prevalentemente, nell’ambito dell’accertamento delle infedeltà coniugali.

A differenza di molti “colleghi” che vantano nelle loro pubblicità e nei loro siti internet di occuparsi di tutt’altre attività investigative, io mio occupo, con orgoglio e soddisfazione, di questa attività che reputo importantissima e molto delicata, in quanto permette non solo al cliente di far valere o difendere un proprio diritto in sede giudiziaria, ma anche di fornire allo stesso le prove che gli permettono di “prendersi la soddisfazione” di vedere confermare quanto sosteneva.

Spesso infatti molti Clienti che si sono rivolti a me, non avendo le prove di quanto sospettavano, venivano giudicati “visionari” e “gelosi”, nonché responsabili della fine del rapporto, proprio per i loro comportamenti “eccessivi e immotivati”.

Penso sia facilmente immaginabile, pur nella gravità della situazione, la “soddisfazione” dei clienti nell’avere finalmente prova di quanto già sospettavano e poter, finalmente, dimostrare le loro ragioni sia al coniuge che a tutte le persone che li accusavano di essere “visionari”.

A conferma di quanto sopra esposto, c’è la gratitudine che mi manifestano pressoché quotidianamente i miei Clienti che, sinceramente, è per me più soddisfacente dell’aspetto economico.

 

Ritengo quindi di aver acquisito una grande esperienza nel trattare questo tipo di attività, sia nell’ambito strettamente tecnico/investigativo e quindi di come accertare e documentare il comportamento “palesemente intimo e affettuoso” della persona oggetto di indagine che nell’ambito della realizzazione della relazione investigativa che verrà, a fine attività, consegnata al cliente.

 

Più nello specifico:

 

La parte tecnico/investigativa dell’operazione consisterà nell’accertare l’infedeltà della persona oggetto di indagini.

Per fare questo e per acquisire le prove necessarie sarà necessario stabilire un piano di intervento in base agli spostamenti quotidiani del soggetto.

Questa fase comprende accertamenti sul posto, osservazione statica e dinamica del soggetto (pedinamento), uso del localizzatore satellitare per monitorare il mezzo (auto/moto) con cui si sposta, ecc., fino al moneto di accertare gli eventuali incontri con “l’amante”, che verranno documentati fotograficamente o filmati, in base alle esigenze del momento.

Dopo aver documentato, in più occasioni, gli atteggiamenti sopra indicati, si passerà alla fase finale dell’operazione che consisterà nella stesura della relazione investigativa.

Questa è una fase altrettanto importante in quanto la stesura della relazione non ritengo che si possa ridurre ad una breve descrizione di un episodio accertato, bensì nella descrizione dettagliata di quanto emerso dalle indagini, specificando data, ora e luoghi, da fotografie comprovanti quanto descritto e, possibilmente, da più episodi documentati che servono a dimostrare la “continuità” del rapporto a differenza di “un episodio sporadico”.

La relazione investigativa verrà, ovviamente, consegnata al cliente carta intestata contenente tutti i parametri che permetteranno al legale del Cliente di citarmi in Tribunale come teste, qualora sia necessario.

Può sembrare superfluo specificare quest’ultimo punto, ma non lo è, in quanto mi sono trovato a parlare con Clienti i quali si erano rivolti in passato ad altri colleghi che avevano fornito loro “due righe” scritte su foglio bianco e senza foto, a loro dire, per motivi di privacy.

A mio personale giudizio più che per motivi di privacy è per loro ignoranza e incompetenza, infatti l’Investigatore Privato regolarmente autorizzato dalla Prefettura, quale io sono, può, anzi deve, relazionare quanto effettuato sia attraverso la relazione scritta che le fotografie effettuate.

Sarà la professionalità e la competenza dell’Investigatore Privato a determinare cosa e chi si può fotografare e cosa non si può fare, assumendosi lui le responsabilità di quanto fatto.

 

Spero di essere riuscito a fare un minimo di chiarezza sull’argomento: infedeltà coniugale e attività investigativa.

 

Riporto di seguito sunti di Sentenze di Cassazione e pareri sulle stesse, che potrebbero essere utili ai Clienti.

 

Infedeltá coniugali

 

"..Ricerca di prove testimoniali per ottenere la separazione giudiziale con addebito di responsabilità al coniuge infedele in base all'articolo 143 del Codice Civile.."

 

La fedeltà, l'assistenza morale e materiale, la collaborazione nell'interesse della famiglia e la coabitazione sono doveri regolati sia dal codice civile che dal codice penale.

In caso di tradimento, il coniuge ha il diritto di reperire prove atte a testimoniare l'infedeltà del coniuge. Rivolgendosi ad un investigatore privato potrà far valere i diritti sanciti dall'art. 143 del codice civile e ottenere una separazione giudiziale con addebito di responsabilità.

 

Addebito per infedeltà coniugale

 

L’infedeltà coniugale è la principale causa di frattura dei matrimoni e il più diffuso motivo di addebito delle separazioni.

 

Il tradimento della fedeltà coniugale è uno (forse il principale) motivo di addebito della separazione. In altri termini, il coniuge tradito può chiedere che la separazione sia addebitata al traditore, con tutte le conseguenze scaturenti dalla pronuncia di addebito. Non sempre (ma quasi) e a condizione che l’infedeltà sia comunque stata la causa della fine del matrimonio. L’infedeltà potrebbe, infatti, essere non la causa ma l’effetto di una vita coniugale già compromessa per tutt’altri motivi. Non determina, ad esempio, addebito l’infedeltà del coniuge tradito o di quello abbandonato.

La giurisprudenza interpreta estensivamente l’obbligo di fedeltà, intendendo per essa non solo quella sessuale, ma in generale e per fondate ragioni anche quella morale e spirituale.

Ipotesi affatto differente è quella relativa all’infedeltà apparente, propria di chi assume comportamenti ambigui o che in ogni caso ledano la dignità ed il decoro del coniuge “apparentemente” tradito, a prescindere dalla circostanza che il tradimento sia stato effettivamente consumato oppure no. Anche la semplice infedeltà apparente può essere motivo di addebito della separazione.

 

 

Infedeltà tra Coniugi

 


Come sinonimi di infedeltà coniugale vengono spesso utilizzati anche i termini adulterio e tradimento. Ecco alcuni approfondimenti sull'infedeltà collegata alla causa di separazione.

Infedeltà Coniugale

Definizione di Infedeltà Coniugale
Per infedeltà coniugale si intende quella situazione in cui uno dei due coniugi intreccia con un'altra persona una relazione amorosa, anche di breve durata. A volte vengono utilizzati, come sinonimi di "infedeltà coniugale" anche i termini tradimento e adulterio.

Infedeltà Coniugale e Separazione
Per quanto riguarda il diritto e la disciplina della separazione, l'infedeltà coniugale di uno dei coniugi (del marito o della moglia) rappresenta una causa di intollerabilità della convivenza. L'infedeltà coniugale è pertanto una delle cause che possono determinare la separazione giudiziale tra i coniugi.

Come definito dall'articoli 151 del C.C., infatti, la separazione legale giudiziale può essere pronunciata nel caso in cui si verifichino fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza tra i due coniugi.

Inoltre, come indicato nel comma due dell'articolo, l'infedeltà coniugale è una delle cause per cui il coniuge tradito può richiedere l'addebito della separazione all'altro coniuge per via del suo "comportamento contrario ai doveri che derivano dal matrimonio".

Infedeltà Coniugale e Addebito della Separazione
In materia di addebito della separazione, nella giurisprudenza e nelle sentenze della Suprema Corte, ricorre spesso la costante del considerare l'infedeltà coniugale una vera e propria violazione del dovere di fedeltà coniugale e quindi una condizione tale da rendere intollerabile la convivenza coniugale.

L'infedeltà è quindi una delle violazioni dell'obbligo di fedeltà coniugale (in quanto lede l'onorabilità e il decoro del coniuge che viene tradito) che viene di regola considerata una causa sufficiente per giustificare l'addebitamento della separazione all'altro coniuge (a meno che non si verifichi la mancanza di un nesso causale tra l'infedeltà e la crisi familiare).

Va considerato che anche l'infedeltà apparente può essere causa di separazione e di addebito, nel caso in cui comporti una grave offesa all'onorabilità e al decoro del coniuge tradito.

Solitamente, quando si vuole dimostrare l'infedeltà del coniuge, si ricorre ad investigazioni private che hanno l'obiettivo di raccogliere in modo legale prove da portare in giudizio.

Prove dell'Infedeltà Coniugale

L'infedeltà coniugale rappresenta una delle possibili cause di addebito della separazione.

Infatti, in materia di addebito della separazione per infedeltà coniugale, la giurisprudenza ritiene che l'infedeltà di uno dei due coniugi sia una violazione del dovere di fedeltà e che sia quindi uno di quegli elementi tali da rendere intollerabile la convivenza coniugale. L'intollerabilità della convivenza dopo il tradimento da parte della moglie o del marito è tale alla luce della situazione odiosa venutasi a creare per causa del comportamento di uno dei due coniugi, sia che si tratti di infedeltà reiterata, che di una stabile relazione extraconiugale.

Nonostante la gravità del comportamento del coniuge infedele, è però necessario, ai fini dell'addebito della separazione, che ci sia un nesso di causalità tra l'infedeltà e l'intollerabilità della convivenza.

Ad esempio, se l'infedeltà si verifica nell'ambito di una coppia il cui rapporto era già deteriorato da tempo, il Giudice, in assenza di nesso di causalità, potrebbe non pronunciare la sentenza di addebito nella causa di separazione. In questi casi, infatti, l'intollerabilità della convivenza sarebbe già preesistente (trattandosi appunto di una convivenza puramente formale) e non direttamente connessa all'infedeltà.

Quindi è importante sottolineare che l'infedeltà può diventare causa di addebitamento della separazione solamente nel caso in cui venga accertato che la crisi della coppia sia riconducibile solamente al comportamento infedele di uno dei coniugi.

Diventa quindi molto importante poter disporre delle prove dell'infedeltà coniugale.

Come Ottenere le Prove dell'Infedeltà Coniugale?
Se si ha il sospetto dell'infedeltà da parte del proprio coniuge e si vogliono ottenere prove certe, il metodo migliore è quello di rivolgersi a un'agenzia investigativa o ad un investigatore privato.

Una delle attività svolte dalle agenzie di investigazioni, è appunto quella di raccogliere prove che documentino il comportamento infedele e le persone frequentate dal coniuge. Al termine delle indagini vengono solitamente forniti dei report con le prove che evidenziano la relazione extraconiugale, che possono essere poi utilizzate in giudizio per richiedere l'addebito della separazione o anche nella causa di divorzio.

È molto importante scegliere solo agenzie affidabili e che utilizzino metodi leciti e consentiti dalla legge. Non tutti sanno, infatti, che i controlli sui tabulati telefonici, sugli SMS del telefonino, le intercettazioni telefoniche e il controllo delle caselle di posta elettronica non sono consentiti e costituiscono reato.

Come Scoprire l'Infedeltà Coniugale

L'art. 143 del Codice Civile, che viene letto dal sacerdote o dal sindaco quando ci si sposa, recita che "con il matrimonio il marito e la moglie acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri. Dal matrimonio deriva l'obbligo reciproco alla fedeltà, all'assistenza morale e materiale, alla collaborazione nell'interesse della famiglia e alla coabitazione. Entrambi i coniugi sono tenuti, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, a contribuire ai bisogni della famiglia."

Tale articolo, quindi, stabilisce i doveri alla cui osservanza sono tenuti responsabilmente i coniugi durante il matrimonio.

L'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale pertanto viene valutato come una violazione di particolare gravità che, nel caso in cui determini che la convivenza, a causa dell'infedeltà di uno dei due coniugi, diventi intollerabile, può diventare un comportamento sufficiente a giustificare la separazione giudiziale con l'addebito della separazione stessa al coniuge fedifrago.

Va chiarito bene, però, che la sola infedeltà coniugale del marito o della moglie, di per sé non rappresenta un comportamento che è sufficiente per richiedere la separazione, ma solo se viene accertato che esiste un nesso causale tra l'infedeltà di un coniuge e la crisi matrimoniale. Deve essere quindi accertato che è proprio l'infedeltà di uno dei due coniugi la causa della fine di un matrimonio e non la conseguenza.

Solitamente l'infedeltà coniugale è una delle cause di separazione più comuni proprio perché quasi sempre il tradimento rende intollerabile la convivenza tra marito e moglie, ma tale comportamento per diventare causa dell'addebito di separazione giudiziale non deve essere la conseguenza di una crisi già in atto tra i coniugi.

Il solo comportamento infedele di un coniuge e quindi l'infedeltà, quando si rileva che si è manifestato successivamente ad una crisi matrimoniale già in essere, di per sé, non basta per una pronuncia di addebito da parte del Giudice.

Nel caso quindi di una coppia sposata che si trovi in una situazione di crisi coniugale in corso e in cui uno dei due coniugi tenga un comportamento infedele, di tradimento nei confronti dell'altro, che però non è la causa della crisi coniugale che già preesisteva, il Giudice non accoglierà, nel caso di separazione giudiziale, la richiesta dell'addebito.

Significato di Infedeltà Coniugale
Come caso di infedeltà coniugale non si intende solo il caso in cui uno dei due coniugi ha una relazione sentimentale con rapporti sessuali con altri, ma anche in quei casi in cui il comportamento di uno dei coniugi tradisce la fiducia dell'altro verso il quale non mantiene un rapporto di interesse fisico e spirituale.

Così anche la mancanza di lealtà di un coniuge che nasconde all'altro cose e fatti importanti per la vita matrimoniale assume il significato di tradimento e di comportamento infedele. In un matrimonio, infatti, la fedeltà coniugale va di pari passo con l'idea di lealtà reciproca.

Dal punto di vista normativo l'infedeltà coniugale si configura come violazione degli articoli 142 e 143 del Codice Civile che regolano i diritti del matrimonio, e l'Articolo 151 comma 1 e comma 2 che rileva l'addebito di colpa (separazione giudiziale).

L'Infedeltà Coniugale è un Reato?

La fedeltà coniugale rappresenta uno dei punti più significativi e permanenti dell'impegno e della donazione reciproca matrimoniale. La fedeltà tra i coniugi costituisce infatti uno dei doveri fondamentali che nascono dal matrimonio (oltre a quello della collaborazione, assistenza, ecc.).

Il principio dell'esclusività tra un uomo e una donna rappresenta l'anima della società coniugale e sta anche alla base del principio giuridico della non libertà di stato (articolo 86 del Codice Civile, "Non può contrarre matrimonio chi è vincolato da un matrimonio precedente") dato che non è consentita la contemporanea esistenza di due comunioni di vita di un soggetto con diverse persone.

Siccome l'infedeltà coniugale è una delle cause di separazione tra i coniugi più frequenti, spesso ci si domanda se l'infedeltà tra coniugi sia considerata un vero e proprio reato.

L'infedeltà coniugale non rappresenta più un reato, con le due sentenze della Corte Costituzionale (n.126/1968 e n.147/1969) che hanno dichiarato illegittimi gli articoli 559 e 560 del Codice Penale, ma rappresenta un fatto di elevata rilevanza sul piano giuridico.

La violazione del dovere di fedeltà, e quindi l'infedeltà, un tempo prevedeva un valore così rilevante da avere nell'ordinamento giuridico italiano due tipi di conseguenze penali (artt. 559 e 560 codice penale): •Reato di "adulterio" a carico della moglie che fosse stata infedele al marito. Per tale reato era prevista la pena della reclusione fino a un anno (art. 559 codice penale).
•Reato di "concubinato" a carico del marito che avesse tenuto una concubina nella casa coniugale o altrove. Per tale reato era stabilita la pena della reclusione fino a due anni (art. 560 codice penale).
La giurisprudenza attuale sul piano giuridico continua però a dare molta rilevanza al dovere di fedeltà coniugale inteso come lealtà e impegno reciproco dei due coniugi di non tradire la fiducia dell'altro.

L'infedeltà coniugale e quindi la violazione del dovere di fedeltà non è più reato e non ha più conseguenze penali, ma può avere importanti conseguenze sul piano civilistico, può ad esempio essere causa di addebito della separazione a carico del coniuge infedele qualora l'infedeltà sia la causa da cui si è originato il deterioramento del matrimonio e si è generata l'intollerabilità della convivenza.

Come Fare per Scoprire l'Infedeltà Coniugale
Spesso si sospetta l'infedeltà, ma non si hanno prove certe del comportamento infedele e pertanto è bene rivolgersi ad un investigatore o a un'agenzia investigativa privata, specializzata nel trovare e raccogliere le prove dell'infedeltà di un coniuge.

Le indagini svolte da un investigatore o da un'agenzia privata sono volte a raccogliere, anche con il sussidio dei mezzi tecnologici oggi a disposizione, fatti e documenti concreti che il cliente in sede giudiziale potrà far vagliare dal Giudice nel caso chieda la separazione con addebito.

 

Cassazione: moglie infedele? L’addebito della separazione spetta a lei

La Cassazione assegna l’addebito della separazione coniugale alla moglie fedifraga

 

 

Entrano in funzione importanti novità giurisprudenziali in tema diaddebito e separazione coniugale. La Corte di Cassazione, infatti, con la sentenza n. 17089 del 10 luglio 2013, ha rigettato il ricorso presentato da una moglie  contro la decisione della Corte d’Appello di Brescia responsabile di averle addebitato la separazione, annullando il mantenimento e limitando quello a favore della figlia. Seguendo l’orientamento tracciato dai giudici di merito, anche la prima Sezione civile della Suprema Corte ha addebitato il fallimento matrimoniale alla condotta tenuta dalla donna fin dall’origine della convivenza, perché contraria ai doveri discendenti dal vincolo matrimoniale.

Se la moglie è fedifraga, infatti, secondo gli ermellini l’addebito della separazione scatta a suo carico e non a quello del marito che si è mostrato aggressivo a seguito del comportamento infedele. Piazza Cavour ha considerato le reciproche manifestazioni di aggressività come cagionate dal tradimento coniugale messo in atto dalla moglie, nonché dalle aggressioni fisiche perpetuate da quest’ultima. “La pronuncia dell’addebito -ha rammentato al riguardo la Corte- postula l’accertamento della riconducibilità della crisi coniugale alla condotta di uno o di entrambi i coniugi, oggettivamente contraria ai doveri nascenti dal matrimonio, e quindi della sussistenza di un nesso di causalità tra i comportamenti addebitati a ciascuna delle parti e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, che costituisce il presupposto necessario per la pronuncia della separazione”.

Un accertamento di tale portata, specificano i giudici supremi, “implicando una valutazione globale e comparativa della condotta dei coniugi, volta a stabilire la misura in cui ciascuno di essi ha concorso a determinare il fallimento dell’unione”, esige obbligatoriamente che il comportamento deplorevole di uno dei due soggetti non sia valutato singolarmente, ma venga considerato in maniera contestuale a quello tenuto dall’altro coniuge affinché si possa in tal modo appurare che “l’inosservanza dei doveri coniugaliascrivibile a uno dei due coniugi possa eventualmente trovare giustificazione come reazione al comportamento inadempiente o provocatorio dell’altro, ovvero se essa sia configurabile come effetto, anziché come causa della frattura coniugale, in concreto già verificatasi”.

Non è tutto: la Cassazione ha dichiarato anche l’illegittimità della contrazione dell’assegno di mantenimento per il figlio minore nel caso in cui, come appunto quello in questione, il coniuge su cui ricade l’obbligo sia titolare di un ingente patrimonio. Piazza Cavour ha infatti annullato la disposizione di riduzione dell’assegno per il mantenimento della figlia minore da parte della Corte bresciana, ritenendola errata perché unicamente basata sulla valutazione delle esigenze di quest’ultima e non comprensiva degli ulteriori aspetti segnalati dalla legge come ad esempio l’elevato reddito del padre, nonché l’indisponibilità di redditi da parte della madre.

 

Corte di Cassazione sentenza n. 2093 del 28 febbraio 2011

 Il fatto

Il caso riguarda una coppia che si rivolgeva al Tribunale di Latina per definire il procedimento di separazione giudiziale.

Il giudice con sentenza, pronunciava la separazione personale tra i coniugi, addebitando la separazione alla moglie ed affidando i figli al padre.

Il Tribunale stabiliva, altresì, di assegnare la casa coniugale al marito, onerandolo dell’obbligo di corrispondere in favore dei figli un contributo di mantenimento nonché in favore della moglie un assegno pari ad Euro 350,00 mensili.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza depositata il 7 marzo 2007, in parziale riforma della sentenza di primo grado, escludeva l’addebito della signora e disponeva l’affido congiunto dei figli, confermando l’obbligo del padre di corrispondere un contributo di mantenimento per i figli aumentato rispetto a quanto stabilito in primo grado nonché un assegno di mantenimento in favore della moglie pari all’importo di Euro 1.000,00 mensili.

Quanto all’addebito, i giudici di merito rilevavano che la signora aveva reso partecipe il marito della sua relazione con un uomo, come dimostrato anche attraverso l’esame dei testimoni, in un momento in cui il rapporto coniugale era già in crisi e che, pertanto, tale circostanza non poteva essere considerata la causa determinante la crisi coniugale tra i coniugi.

In ordine alla misura dell’assegno di mantenimento a favore della donna, la Corte d’Appello rilevava come non fossero risultate provate delle concrete opportunità di lavoro successive alla separazione, né l’esistenza di autonome fonti di reddito sufficienti a consentire alla stessa il mantenimento del precedente tenore di vita.

Il marito ricorreva in Cassazione proponendo quattro motivi di ricorso, nei quali sosteneva il vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla corretta valutazione degli elementi probatori fondanti la richiesta di addebito della separazione alla moglie.

Il predetto rilevava altresì, come la sentenza di secondo grado fosse viziata nella parte in cui escludeva l’addebito, posto che la relazione extraconiugale della donna era stata ampiamente provata, anche attraverso l’esame dei testimoni.

Secondo l’uomo, alla luce delle risultanze probatorie, avendo la moglie apertamente violato il dovere di fedeltà coniugale, i Giudici di merito avrebbero dovuto considerare la relazione extraconiugale quale causa della fine del matrimonio.

La Corte di Cassazione, con sentenza del 28 febbraio 2011 n. 2093, respingeva il ricorso dell’uomo in ordine al terzo motivo proposto e ritenendo preclusa la valutazione degli elementi fondanti il primo, terzo e quarto motivo poiché, mirando gli stessi a rivisitare gli elementi probatori già valutati in secondo grado e sollecitandone nuova lettura in tesi corretta e comunque più favorevole al ricorrente, richiedevano un controllo di merito non ipotizzabile in sede di legittimità.

La decisione della Suprema Corte con sentenza n. 2093 del 28 febbraio 2011

Com’è noto, l’infedeltà coniugale di cui all’art. 143 c.c., che di solito rende intollerabile la prosecuzione della convivenza tra i coniugi, può risultare determinante nella fine del matrimonio e comportare il cosiddetto addebito della separazione.

L’art. 151 c.c. prevede, infatti, la possibilità per il Giudice che pronuncia la separazione di stabilire a quale coniuge quest’ultima sia addebitabile.

A fondamento della pronuncia di addebito occorre riscontrare, in una delle parti, dei comportamenti contrari agli obblighi coniugali prescritti dal codice civile.

La pronuncia di addebito comporta, ad esempio, la perdita del diritto al mantenimento, del diritto all’assistenza previdenziale e dei diritti successori in capo al coniuge, per così dire, “colpevole”.

Tuttavia, la costante ed uniforme giurisprudenza, da tempo, ha stabilito il principio per il quale se all’epoca del tradimento l’unione dei coniugi era già in crisi, il coniuge responsabile - pur se “reo confesso” – riesce ad evitare l’attribuzione della “colpa” in sede di separazione.

La pronuncia di addebito, secondo la Cassazione, non può essere basata sulla semplice violazione dei doveri coniugali di cui all’art. 143 c.c., essendo necessario accertare l’eventuale esistenza di un collegamento (o nesso di causalità) tra la detta violazione e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza.

Dunque, si evidenzia che, pur a fronte della accertata violazione degli obblighi in questione, l’addebito della separazione si esclude quando il Giudice rilevi la preesistenza di un irrimediabile contrasto fra i coniugi o comunque il carattere meramente formale della convivenza, con la conseguenza che la violazione stessa non produce i suoi effetti naturali.

I comportamenti rilevanti ai fini della addebitabilità o meno della separazione sono solo quelli anteriori alla situazione di crisi della coppia e non anche quelli posteriori: non ha importanza, quindi, il comportamento tenuto dai coniugi una volta manifestatasi la frattura.

Nel caso di specie, la moglie aveva rivelato al partner di averlo tradito ed aveva palesato anche all’esterno tale relazione extraconiugale, ma non è incorsa nell’addebito, avendo dimostrato che il matrimonio risultava essere in crisi già antecedentemente al tradimento e che, pertanto, la relazione extraconiugale, non essendo riconducibile direttamente alla crisi dell’unione, non poteva essere causa dell’addebito della separazione.

Essendo il relativo comportamento infedele successivo al verificarsi della situazione di intollerabilità della convivenza, esso non è di per sé solo rilevante e non può, conseguentemente, giustificare una pronuncia di addebito.

È quanto emerge dalla sentenza n. 2093 del 28 febbraio 2011 della prima sezione civile della Cassazione, che, confermando la valutazione della Corte d’appello, ha stabilito che nessun addebito dovesse essere attribuito alla moglie che si è vista, anzi, aumentare l’assegno di mantenimento.

Nonostante la donna avesse confessato la propria relazione extraconiugale in costanza di matrimonio sia al marito che all’esterno nel loro contesto sociale, la stessa non è stata considerata responsabile della crisi coniugale e della conseguente fine del matrimonio.

La signora è, infatti, certamente venuta meno all’obbligo di fedeltà coniugale, ma la circostanza non risulta decisiva agli occhi dei Giudici.

La Corte d’Appello, ribaltando la decisione del Tribunale, aveva sostenuto che l’unione fra i coniugi risultava già in crisi al momento del tradimento e, dunque, non ha rilevato il nesso causale tra la condotta della moglie e la fine del matrimonio, necessario per la dichiarazione di addebito della separazione.

La decisione di secondo grado è stata ritenuta dalla Suprema Corte ben motivata e non censurabile in sede di legittimità.

Si legge, infatti, nella esaminanda sentenza che “la Corte territoriale ha fatto buon governo del principio enunciato da questa Corte - Cass. n. 25618/2007- secondo cui la violazione dell’obbligo di fedeltà coniugale, particolarmente grave in quanto di regola rende intollerabile la prosecuzione della convivenza e giustifica ex se l’addebito della separazione al coniuge responsabile, non è causa d’addebito se risulti provato che comunque non ha avuto incidenza causale nel determinare la crisi coniugale, siccome essa già preesisteva (cfr. anche Cass. n. 8512/2006). Il giudice di merito, pur incorrendo in errore per aver negato la violazione da parte della M. del siffatto dovere, ha comunque ritenuto di escludere l’anzidetto nesso causale tra il tradimento e la fine dell’unione coniugale, con valutazione, adeguatamente motivata, insindacabile nel merito”.

Pertanto, se, di norma, l'infedeltà coniugale costituisce causa di addebito della separazione, determinando l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, onde evitare l'addebito stesso, il coniuge che tale infedeltà abbia posto in essere dovrà fornire la prova rigorosa della preesistenza della crisi coniugale, in un contesto caratterizzato da una convivenza meramente formale (vedi anche Cass. sentenza n. 16873 del 19/07/2010).

 

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